È appena arrivata al cinema il biopic di Elizabeth “Lee” Miller una delle più importanti fotografe del Novecento, la interpreta Kate Winslet
Ve ne ho già parlato a inizio settimana: Lee Miller è appena uscito in sala per raccontare la vita, anzi, una parte della vita, di Elizabeth “Lee” Miller, ex modella e una delle più grandi fotografe del secolo scorso, la prima donna a documentare, con grande lucidità, la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, ma anche così “pop” da farsi ritrarre nuda nella vasca da bagno di Hitler nella sua casa di Monaco appena occupata dalle truppe americane.
A interpretarla c’è Kate Winslet, che è anche produttrice del film, affiancata un prestigioso cast in cui compaiono Alexander Skarsgård, Marion Cotillard, Andrea Riseborough, Josh O’Connor, Noémie Merlant, e Andy Samberg. La pellicola si ispira al libro Le molte vite di Lee Miller di Antony Penrose, figlio della fotografa e del surrealista Roland Penrose, e alla regia c’è Ellen Kuras, già collaboratrice abituale di Spike Lee e Michel Gondry.

Chi era Lee Miller
Americana, nata nel 1907, Lee era figlia di un ingegnere che si dilettava di fotografia e che le insegnò a scattare quando era ancora una bambina.
Studiò arte a New York e a Parigi e cominciò la sua carriera di modella per un puro (fortunatissimo) caso: a 19 anni, mentre camminava per le strade di Manhattan, fu salvata dall’essere travolta da un’auto da un passante che si rivelò essere mr. Condé-Nast, l’editore di Vanity Fair e Vogue. Lui la volle con sé, e la fece diventare una delle modelle più ricercate di New York.
Successivamente, nel 1929, Lee si trasferì a Parigi dove divenne collaboratrice e compagna del fotografo surrealista Man Ray, scattò per le stiliste Elsa Schiaparelli e Coco Chanel e fece amicizia con Pablo Picasso e i surrealisti Paul Éluard e Jean Cocteau. Qualche anno dopo, nel ’32, tornava a New York per allestire un proprio studio fotografico e diventare ritrattista di celebrità come l’artista Joseph Cornell e le attrici Lilian Harvey e Gertrude Lawrence.
Nel ’34 conobbe il suo primo marito, Aziz Eloui Bey, un facoltoso uomo d’affari egiziano, e con lui si trasferì al Cairo, dove fotografò templi, rovine e piramidi. Ma soltanto tre anni dopo, nel 1937, chiuse la sua storia d’amore per tornare a Parigi.
Il film racconta il resto, con una piccola appendice: dopo la morte di Lee, nel 1977, suo figlio Antony, col quale in vita aveva intrattenuto pochissimi rapporti e che non aveva idea della carriera della madre, scoprì circa 60 mila negativi e 20 mila stampe nella soffitta di Farley Farm House, la sua residenza in Inghilterra.

Il film
La storia che viene raccontata nel film tralascia tutta la prima parte della vita e della carriera della Miller e comincia proprio alla fine degli anni Trenta, quando Elizabeth a Parigi si innamora del mercante d’arte Roland Penrose (Skarsgård) e lascia la sua vita artistica e la sua cerchia di amici, tra cui, appunto, Man Rey, la modella e artista surrealista Nusch Éluard (Merlant) e suo marito, il poeta Paul, per trasferirsi a Londra con lui.
Mentre in Europa scoppia la Seconda guerra mondiale, Lee ottiene un lavoro per British Vogue, dove diventa amica della caporedattrice Audrey Withers (Riseborough), ma rimane scioccata dalle restrizioni imposte alle fotografe donne, alle quali Il Regno Unito non permette di recarsi nelle zone dove si combatte. Determinata a essere “sul pezzo”, finalmente ottiene un accredito di guerra dagli Stati Uniti e parte da sola per la Francia, dove riesce a documentare i primi utilizzi del napalm. Presto si unirà al collega fotografo David E. Scherman (Samberg), corrispondente per la rivista Life: insieme formano una squadra imbattibile, ma è sempre Lee che la guida.
In coppia immortalano la liberazione di Parigi, si intrufolano nella casa abbandonata di Hitler, dove Scherman scatta la celebre foto di Miller che si fa il bagno nella vasca del Führer e sono tra i primi fotografi a entrare nei campi di Buchenwald e Dachau il giorno della liberazione.
Qui, Lee realizza una serie di immagini sconvolgenti, destinate a imprimersi nella storia e a segnare profondamente la sua fragile salute mentale negli anni successivi alla guerra.

Intervista a Kate Winslet
Kate Winslet è “inciampata” nella storia di Lee Miller per puro caso (anche lei): acquistando un tavolo antico durante un’asta scoprì che era appartenuto alla fotografa. Si chiese: come mai nessuno ha mai fatto un film sulla sua storia? E contattò il figlio Antony Penrose.
Lui che cosa le rispose?
«Mi disse che ci avevano provato molti uomini, ma nessuno l’aveva capita completamente».
Chi era Lee Miller, dunque?
«Una donna che viveva la propria vita al massimo, senza paura. Una fonte di ispirazione per tutte le donne che osano sfidare il mondo. Quando ci siamo messi a lavorare al film abbiamo capito che non si poteva fare un biopic tradizionale. Lee aveva vissuto troppe vite per essere raccontata in un solo film. Così abbiamo scelto il periodo più significativo, gli anni in cui lavorò come fotografa di guerra. Ed era anche chiaro che il film doveva essere diretto da una donna».
Che cosa le hanno trasmesso le fotografie di Lee?
«L’idea di un lavoro potentissimo e coraggioso. C’è una fotografia molto famosa in cui ritrae la figlia del borgomastro, costretta dal padre nazista a togliersi la vita: è così vicina al viso della ragazzina da permettere di vedere perfettamente i suoi denti. Un’immagine straziante e devastante. E ancora, mentre documentava l’Olocausto, vece di scattare fotografie da lontano, Lee si arrampicò su un treno pieno di cadaveri, si mise in mezzo a loro e fotografò i volti dei medici dell’esercito americano che guardavano dentro. Voleva mostrare l’orrore di ciò che era accaduto e l’impatto che aveva sulle persone da entrambi i lati della guerra. A casa, la gente non sapeva».